martedì, maggio 30, 2006

Vedo un ragazzo cieco. Cerca di uscire da una piazza recintata, in un punto dove, fino a ieri, esisteva un cancello. Il volto inespressivo nascosto dietro agli occhiali neri, continua a sbattere il suo bastone bianco sulla rete, ora a destra, ora a sinistra: ha l'ostinazione di un insetto dietro un vetro. Il cancello è stato spostato ma naturalmente lui non può saperlo. Alla fine qualcuno lo aiuta, lo afferra per un braccio, lo guida nella direzione giusta. Si allontana rapido, con piccoli passi incerti, senza ringraziare. Non si sente obbligato a sprecare parole. Penso che abbia ragione.
Ebbene, che cosa voglio fare? L'ennesima insignificante autobiografia via Internet, il solito sfogo paraletterario di cui non frega niente a nessuno, o a pochissimi? Da mesi seguo in silenzio, con assiduità da voyeur, l'intrecciarsi e il moltiplicarsi di chiacchiere virtuali. Ognuno forse pensa che la sua voce, così, possa arrivare più lontano di quanto accadrebbe se, semplicemente, si fermasse a ragionare un poco, quasi per scherzo, con il vicino di casa. Tutti hanno qualcosa da dire. Tutti credono di aver qualcosa da dire e ripetono, con impercettibili variazioni, la solita nenia. Le parole diventano melma, o, peggio, melassa. E' affascinante osservare dall'esterno, senza mostrarsi, la mostruosa metamorfosi dell'individuale verità (che pure, da qualche parte, deve esistere, spero) in soffocante, ingrigito luogo comune.

E io? Che vengo a fare qui? Disilllusa, spenta, a un passo da buttare all'aria, in un modo o nell'altro, la mia vita, mi metto a raccontare la mia inutilità, il mio sperdimento, la mia inettitudine. Che cosa mi aspetto? una consolazione, uno schiaffo, una provocazione, un insulto? Mah, forse solo (un tentativo di) spiegazioni.

lunedì, maggio 29, 2006

Sono una che ride, e molto. Tuttavia non credo di suggerire un'impressione di scarsa serietà. Probabilmente chi mi conosce superficialmente o parzialmente, chi crede di conoscermi, pensa che io sia una persona a suo agio nella sua vita e nella sua pelle. Una sicura. Una priva di inutili complicazioni.

Io sono una che cammina da sempre sull'orlo. Che cosa c'è al di là? Un precipizio, un abisso? O semplicemente un mediocre salto di pochi centimetri per poggiare alla fine il proprio indolenzito deretano su un po' di terra battuta, in un cortile qualunque popolato di rifiuti ed erbacce?

Non lo so. Non lo voglio sapere. Almeno per adesso.

Anche mio figlio cammina sempre sul margine del marciapiede, oppure rasente al muro. Non riesce a procedere a diritto, baldo, sicuro di sé come qualunque ragazzino di undici anni. Scuote la testa e va avanti di sghimbescio, assorto nei suoi pensieri impossibili. Mi stringe il cuore vedere quanto mi somigli. La sua perplessità è la mia. Ma con gli anni ho imparato a mimetizzarmi.

Da un po' di tempo mi assilla un pensiero. Quando mio figlio avrà la mia età di ora e dopo, quando sarà prima anziano e poi vecchio, non ci sarò. Che strano pensarlo un po' stempiato, con la pancetta e magari qualche doloretto qua e là, e sempre la sua aria stralunata, la sua disarmante dolcezza, le sue lievi inquietudini. Per allora avrà imparato a nascondersi? A mimetizzarsi fra gli altri così che solo pochi possano riconoscerlo? Avrà imparato a sopportare il suo esilio? O, più semplicemente, avrà dimenticato da dove viene? In ogni caso non spetterà più a me ricordarglielo.

Mi manca il tempo. Ho fatto così presto ad arrivare a questo punto. Non più giovane, non ancora vecchia. Non ho dimenticato nulla. Ma non so a chi lasciare la mia eredità. Non so nemmeno, ad essere sincera, se ho qualcosa da lasciare. Qualcosa da raccontare. La mia storia è cenere.

Non mi resta che affidarmi al caso. E spargere qua e là qualche traccia. Per essere trovata. Per ritrovarmi.





mercoledì, maggio 17, 2006

Sul comodino di mia madre, in una cornice d'argento ormai annerita dal tempo, la foto di un bambino, circondato da trine e merletti, la cuffietta bianca, i pugni stretti e gli occhi chiusi, come se dormisse: ma è morto, è nato morto. Io sono venuta al mondo due anni dopo, concepita con il compito preciso di sanare quella perdita. Lo psichiatra lo consigliò esplicitamente: "Signora, l'unica cura è un altro figlio". Quando nacqui, tutti ripetevano a mia madre: "Di che ti lamenti? Ora il figlio ce l'hai". Lei fu presa dal panico. Mi affidò a mia nonna e si fece ricoverare in clinica. Tornò a casa solo due mesi dopo, e non per me, ma perché mio fratello maggiore era stato bocciato agli esami di riparazione. Strigliò doverosamente il ragazzino. E da subito ricominciò a lavorare, forse per non pensare alle sue malinconie, ricorrendo, per le necessità che mi riguardavano, alla classica tata. Questa è la sequenza dei fatti che hanno condotto alla mia nascita e che hanno segnato i miei primi giorni, così come l'ho sempre conosciuta.

Nonostante tutto non ho mai messo in dubbio di essere stata davvero desiderata e amata. Anche se non potevo fare a meno di pensare: " Se lui fosse nato, io non ci sarei stata". Ma non disturbavo troppo spesso il suo fantasma con questo genere di elucubrazioni. Né mi pareva strana la foto di quel bambino accanto al letto di mia madre, come se non fosse mai stato definitivamente sepolto. Fu mio marito a notare quanto fosse macabra quell' immagine: ma questo è successo tanto tempo dopo e quell'osservazione, nella sua ovvietà, mi lasciò stupita. Poi anche mia madre, in un attacco di improvvida sincerità (forse una vendetta, perché nel frattempo ero cresciuta e non ero più la sua fida bambina, quella che non avrebbe mai potuto tradirla) mi rivelò che lei non mi aveva davvero voluto, perché temeva, semplicemente, di non farcela a gestire un altro essere umano visto che per due anni almeno non era stata capace di gestire se stessa. Potevo (posso) capirlo ma mi sembrò (mi sembra) lo stesso una carognata venirmelo a raccontare. Ebbi l' impressione, per un momento, di essermi trasformata nella protagonista di un b - movie televisivo, di quelli che sfruttano un po' di luoghi comuni psicoanalitici a buon mercato. Ma queste storie finiscono bene, in genere: ognuno riconosce i suoi torti, alla fine i protagonisti si riconciliano fra loro e con la vita, e tutti vivono felici e contenti. Naturalmente la realtà è diversa e le facili consolazioni raramente sono disponibili.

Non so che cosa voglio davvero dimostrare con questo inizio. Che le famiglie perfette non esistono e che comunque la mia, perbenista e rispettata, è ben lontana dalla perfezione. Banale. O forse voglio proprio raccontare la nostra banalità, una banalità poco eroica e per nulla sentimentale. Magari sto semplicemente cercando di capire qualcosa che mi riguarda, quel qualcosa che da sempre mi sfugge. Quel bambino che non ha mai cominciato a respirare è rimasto una perenne possibilità, un' illusione che non si è mai compiutamente dissolta, una promessa non mantenuta, l'ombra di una vita perfetta e felice spazzata via dal destino cinico e baro. Fosse sopravvissuto, per mia madre tutto sarebbe stato diverso. O almeno lei lo pensava. Potevo competere con un sogno?