mercoledì, maggio 17, 2006

Sul comodino di mia madre, in una cornice d'argento ormai annerita dal tempo, la foto di un bambino, circondato da trine e merletti, la cuffietta bianca, i pugni stretti e gli occhi chiusi, come se dormisse: ma è morto, è nato morto. Io sono venuta al mondo due anni dopo, concepita con il compito preciso di sanare quella perdita. Lo psichiatra lo consigliò esplicitamente: "Signora, l'unica cura è un altro figlio". Quando nacqui, tutti ripetevano a mia madre: "Di che ti lamenti? Ora il figlio ce l'hai". Lei fu presa dal panico. Mi affidò a mia nonna e si fece ricoverare in clinica. Tornò a casa solo due mesi dopo, e non per me, ma perché mio fratello maggiore era stato bocciato agli esami di riparazione. Strigliò doverosamente il ragazzino. E da subito ricominciò a lavorare, forse per non pensare alle sue malinconie, ricorrendo, per le necessità che mi riguardavano, alla classica tata. Questa è la sequenza dei fatti che hanno condotto alla mia nascita e che hanno segnato i miei primi giorni, così come l'ho sempre conosciuta.

Nonostante tutto non ho mai messo in dubbio di essere stata davvero desiderata e amata. Anche se non potevo fare a meno di pensare: " Se lui fosse nato, io non ci sarei stata". Ma non disturbavo troppo spesso il suo fantasma con questo genere di elucubrazioni. Né mi pareva strana la foto di quel bambino accanto al letto di mia madre, come se non fosse mai stato definitivamente sepolto. Fu mio marito a notare quanto fosse macabra quell' immagine: ma questo è successo tanto tempo dopo e quell'osservazione, nella sua ovvietà, mi lasciò stupita. Poi anche mia madre, in un attacco di improvvida sincerità (forse una vendetta, perché nel frattempo ero cresciuta e non ero più la sua fida bambina, quella che non avrebbe mai potuto tradirla) mi rivelò che lei non mi aveva davvero voluto, perché temeva, semplicemente, di non farcela a gestire un altro essere umano visto che per due anni almeno non era stata capace di gestire se stessa. Potevo (posso) capirlo ma mi sembrò (mi sembra) lo stesso una carognata venirmelo a raccontare. Ebbi l' impressione, per un momento, di essermi trasformata nella protagonista di un b - movie televisivo, di quelli che sfruttano un po' di luoghi comuni psicoanalitici a buon mercato. Ma queste storie finiscono bene, in genere: ognuno riconosce i suoi torti, alla fine i protagonisti si riconciliano fra loro e con la vita, e tutti vivono felici e contenti. Naturalmente la realtà è diversa e le facili consolazioni raramente sono disponibili.

Non so che cosa voglio davvero dimostrare con questo inizio. Che le famiglie perfette non esistono e che comunque la mia, perbenista e rispettata, è ben lontana dalla perfezione. Banale. O forse voglio proprio raccontare la nostra banalità, una banalità poco eroica e per nulla sentimentale. Magari sto semplicemente cercando di capire qualcosa che mi riguarda, quel qualcosa che da sempre mi sfugge. Quel bambino che non ha mai cominciato a respirare è rimasto una perenne possibilità, un' illusione che non si è mai compiutamente dissolta, una promessa non mantenuta, l'ombra di una vita perfetta e felice spazzata via dal destino cinico e baro. Fosse sopravvissuto, per mia madre tutto sarebbe stato diverso. O almeno lei lo pensava. Potevo competere con un sogno?


1 commento:

Anonimo ha detto...

E' una selzione naturale che nella vita decide la vita. Nel dolore della perdita è racchiuso il segreto del nostro essere: potevamo essere biondi, alti, magri, grassi, gialli, neri. Se solo nella combinazione infinita dell'universo il primo spermatozoo avesse fecondato un ovulo diverso innescando una catena diversa. Non genera lo stesso dolore di una fotografia incollata dietro un vetro che pretende d'essere specchio di una fedeltà, ma non differsisce molto da questo infinito itinerario. Sei nata tu non per colmare un vuoto, ma per occupare il tuo posto, unico e, se non predetsinato, inevitabile. Punto. Benvenuta alla vita insieme ai tuoi diari di viaggio. Affascinanti.
Roswita
www.roswita.ilcannocchiale.it